13 assassini di Takashi Miike (2010): la recensione

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Le missioni suicide sono un classico del cinema. Racchiudono in sé sangue, onore, sacrificio, destino ineluttabile. Missioni di totale abnegazione (e massacro) per una causa superiore, missioni che trapassano (come katana) dalla Storia alla Leggenda. Tutti elementi che in 13 assassini di Takashi Miike si amalgamano in un mondo di samurai (neppure giovanissimi) pronti a versare lacrime e sangue per proteggere la pace di un regno.

Come ogni film afferente a questo genere, c’è una prima fase di arruolamento, una seconda di allenamento e preparazione e una terza di massacro, ad oltranza. I 13 samurai di Takashi Miike palesano sin dal titolo la loro natura: sono 13 assassini con la spada sempre sguainata. L’antagonista è anch’esso un folle omicida, il quattordicesimo, un crudele e sadico feudatario, fratellastro dello Shogun, che non esita a uccidere per divertimento in virtù del potere che detiene. Ma non tutto è lecito, non tutto è ammissibile, e pace e giustizia dovranno essere ristabilite a suon di colpi d’arma (bianca).

13 assassini di Takashi Miike13 assassini, remake del celebre film diretto nel 1963 da Eiichi Kudo, vede un Takashi Miike moderato, disciplinato, che rinuncia a gran parte degli eccessi per cui si è fatto conoscere a livello internazionale. Accompagnato da un’atmosfera nuvolosa, il film procede a corrente alternata, dove i momenti più riusciti sono (stranamente) quelli in cui non si combatte. Infatti la pellicola si affatica e appesantisce nella lunga sequenza dello scontro armato, priva di varietas, costellata di spadaccini, esplosioni, uccisioni che non brillano per originalità (anzi finiscono per annoiare).

Detto questo, 13 assassini di Takashi Miike annovera tra i suoi motivi di fascino vari legami dal sapore citazionistico verso il cappa e spada e il western. Tra gli altri, gli scontri sulla main road di un villaggio che ricorda i grandi film di cowboy (anche quelli post-moderni di Clint Eastwood) e le fasi del racconto da (im)puro war movie come Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich.

In sintesi, 13 assassini è un buon film, sicuramente rigoroso, ma anche ripetitivo, di quelli che feriscono ma (purtroppo) non riescono a lasciare il segno.

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13 assassini di Takashi Miike (2010): la recensione ultima modifica: 2015-06-19T16:16:58+02:00 da Tommaso Tronconi

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