Alone di Park Hong-min comincia bene sia a livello narrativo che a livello registico. Il giovane Soo-min assiste accidentalmente all’aggressione ai danni di una ragazza da parte di tre uomini e da quel momento inizia ad essere tormentato da incubi. Piani sequenza con macchina a mano lo seguono, gli corrono dietro, come fantasmi che non ne vogliono sapere di lasciarlo in pace. Ma tutto ciò si fa presto ripetitivo, monotono, noioso. Alone diventa così un cane che si morde la coda e che non va da nessuna parte, tantomeno a coinvolgere lo spettatore.
Alone vorrebbe essere un thriller psicologico con un’atmosfera che allude all’horror, ma non ci riesce. Infatti non basta la componente kafkiana che abbraccia almeno la prima parte del film a dare linfa vitale ad un soggetto che nasce sostanzialmente morto. La sceneggiatura rimane ferma al palo, immobile, tentando di farsi interessante a suon di incubi in cui il protagonista incappa nei ricordi del passato, dai genitori alla ex compagna. Ma nel complesso rimaniamo intrappolati in un vicolo cieco che proprio non ha motivo di incuriosire lo spettatore.
Alone di Park Hong-min sa quindi di occasione sprecata, oltre che tempo sprecato. Ha del potenziale, ma questo rimane totalmente inespresso. I tanti incubi che assillano il protagonista in realtà sono un solo grande incubo: quello che vive lo spettatore che decide follemente di guardare questo film. Conseguenza: Alone è un film che rimane “solo”, isolato, proprio come Soo-min e proprio come chi guarda, in preda ad un grande dubbio sul significato e il valore di un’opera del genere.
scritto da Biancamaria Majorana