An Elephant Sitting Still di Hu Bo: la recensione

An Elephant Sitting Still di Hu Bo

Recensione di An Elephant Sitting Still di Hu Bo.

“La vita è fastidiosa”. “Il mondo è disgustoso”. Due frasi, pronunciate da due personaggi del film, che la dicono lunga sul pensiero nichilista interno, per non dire intrinseco, al primo e ultimo film di Hu Bo, classe 1988, fulgida promessa del cinema cinese, suicidatosi all’età di ventinove anni. Ed è praticamente impossibile giudicare il suo grande film d’esordio, e unico, An Elephant Sitting Still, scindendolo dalla sua tragedia personale.

È il 12 ottobre 2017, quando, subito dopo aver terminato il montaggio del film, Hu Bo si toglie la vita nella sua casa di Pechino. Una decisione, si dice, legata a doppio filo con il tribolato iter del film e le aspre diatribe avute con i produttori (circola anche una versione di due ore in bianco e nero intitolata Manchurian Circus). Un film di grandi proporzioni, sia nella durata (quasi 4 ore) sia nel palpitante disagio esistenziale che mette in scena. Un male di vivere (e morire) che ha sicuramente molto di autobiografico. Ma An Elephant Sitting Still è un grande film a prescindere dalla morte del suo regista. Un film dal cuore largo, malato, affannato ma dignitoso, ansimante ma sotto sotto vitale, che mette in scena i sentimenti più cupi con un’asciuttezza e un rigore che lasciano senza fiato. Da un certo punto di vista, ricorda Alive del coreano Park Jung-bum, da un altro Still Life di Jia Zhang-ke. Ecco, la vita, nonostante tutto, nonostante si sia morti dentro, nonostante ci si senta come morti viventi.

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An Elephant Sitting Still è grande cinema. Ogni sequenza è un piano sequenza, lunghi, imperterriti, ostili e statuari. In una piccola città nel nord della Cina, impolverata e polverosa, dove non batte mai il sole, dove il freddo entra nelle ossa, fino a corrodere le emozioni. Rabbia, dolore, indolenza, violenza verbale, fisica e psicologica. La realtà mostrata nel film è un grigio inferno in terra, di uomini come demoni inconsapevoli che si urlano contro, che si tengono a distanza, che rifiutano ogni legame, parentale e affettivo. Una Cina marcia, avvelenata nelle sue vene sociali, abbandonata da Dio e in larga parte anche dagli uomini.
Ma c’è una speranza, flebile, banale, quasi ridicola. “Dicono che c’è un elefante in Manciuria, nella città di Manzhouli, che sta fermo lì senza muoversi. Le persone accorrono per vederlo, lo infilzano con le forchette, ma lui sembra disinteressarsi di tutto, non mangia, non beve, forse gli piace solo stare seduto lì”. Una storia assurda, di un Dumbo che però assurge, pur non volendo, ad attrazione che re-suscita la vita in chi vorrebbe andare a vederlo. Un elefante come un sogno, come una “terra promessa”, come un simbolo di salvezza, come una luce in fondo al tunnel. Ma arrivarci costa, e non solo denaro. Il film ci racconta tutto questo intrecciando pian piano più storie, una più disastrata dell’altra: quella del sedicenne Wei Bu che spinge il bullo della scuola dalle scale, uccidendolo; quella della sua compagna di classe Huang Ling, tormentata dalla relazione amorosa col vicepreside dell’istituto; quella del vecchio Wang Jin, che i figli vorrebbero mandare in una casa di cura. Piccole grandi storie che da personali si innalzano ad universali. Tragiche e bellissime.

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An Elephant Sitting Still ha l’imponenza dell’animale che dà il titolo al film, e proprio come questo, al di là del “retroscena” della morte del suo giovane regista, ha tutte le caratteristiche per restare lì, seduto come quell’elefante da circo, inamovibile nelle prime file delle opere più significative della più recente storia del cinema.

An Elephant Sitting Still di Hu Bo: la recensione ultima modifica: 2019-01-05T16:09:41+01:00 da Tommaso Tronconi

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