Le miniere della Mongolia come bolge dantesche che stringono verso il centro della Terra, verso il cuore pulsante del mondo, aprendolo e uccidendolo. Questo, e molto altro, è Behemoth – Beixi Moshuo di Zhao Liang.
Miniere come gironi di un inferno incandescente dove trovano malattia e morte centinaia di minatori costretti a lavorare senza sosta e senza salute, come schiavi e poveri diavoli dal volto annerito dalla cenere che non conoscono salvezza. Un’umanità imprigionata nella terra e sulla terra che non conosce purgatorio né tantomeno paradiso.
Unico film orientale in Concorso alla 72esima edizione del Festival di Venezia, Behemoth – Beixi Moshuo di Zhao Liang è un documentario di soffocante bellezza, una poesia per immagini sul lavoro più disumano. Behemoth – Beixi Moshuo è un’esperienza di cinema sensoriale, che arrossa gli occhi e riempie i polmoni di fitta fuliggine che ostruisce le vie respiratorie e satura quelle dello sdegno.
Behemoth – Beixi Moshuo, come detto dallo stesso regista, è una meditazione critica sulla civiltà moderna in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce. È un’esplorazione dolorosa e al contempo lirica delle condizioni di lavoro di uomini-ingranaggio di uno smodato e insensato sviluppo urbano nelle terre d’Oriente come d’Occidente, dove l’industrializzazione ha coperto di cenere nera i prati verdi, rovinando e soppiantando la natura come la ragione umana.
Behemoth è un film potentissimo, che ci spinge e costringe a guardare, soffrire e riflettere, che nel porci di fronte a quel progresso che nasconde il tramonto della vera civiltà torna a interrogarci con quelle tre classiche domande che ci guidano dall’alba dei tempi: chi siamo, da dove veniamo, ma soprattutto dove andiamo, anzi dove stai irrimediabilmente andando.
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