Il cinema coreano più recente ha già trattato il tema dell’Alzheimer in Poetry di Lee Chang-dong. Ma se in quel film la lotta si svolgeva tra la mente e la realtà, alla ricerca di segnali di bellezza da racchiudere in una poesia, in Entangled di Lee Don-Ku lo scontro è tutto interno alla mente.
Il conflitto è tra ciò che si dimentica e ciò che si immagina, tra ciò che è vero (realmente accaduto) e ciò che è falso (solamente immaginato), sospesi tra malattia e follia, tra demenza senile e pazzia omicida. Conseguenza: la realtà sarà più tragica del peggiore degli incubi.
Entangled, opera seconda di Lee Don-Ku (l’esordio, Fatal, è del 2012), ci conduce in una famiglia apparentemente felice, anche se attraversata da un filo di strisciante inquietudine sin dall’inizio, e repentinamente sconvolta da un incidente che spinge ciascuno nella solitudine, in un abisso di accuse e rancori, in una sorta di tutti contro tutti dove il perdono arrivare sempre troppo tardi. Un’instabilità psicologica e affettiva che il regista coreano ricrea tramite un ostentato (ab)uso della macchina a mano e la magra consolazione di una colonna sonora che fa capolino raramente, per lo più con pezzi al clavicembalo che suonano a morte su quanto vediamo.
Entangled è un film che si prende tutto il tempo di cui ha bisogno, volontariamente anche certe lentezze e affaticamenti. È però capace di risolvere gli affanni e di risollevarsi in un finale assolutamente sconvolgente, che ribalta ogni certezza e accenno di happy ending che fino a quel momento abbiamo sempre creduto di avere lì a portata di mano.
Straordinaria l’attrice protagonista Kim Young-Ae, che, con alle spalle oltre 40 film, è senza dubbio una delle più grandi, note e amate interpreti coreane.