Con la Trilogia della Vendetta, Park Chan-wook ha raggiunto la piena notorietà e chiude un ciclo di film incentrato su una tematica che pare legarlo per sempre ad un cinema violento ed estremo. Ma a questo “tremendo destino” Park non ci sta e nel 2006 con I’m a cyborg, but that’s ok cambia totalmente registro, realizzando un film che, come affermò lui stesso, potesse vedere anche sua figlia: “Ho passato molti anni a ‘filmare’ solo il dolore e la violenza, mi sentivo un po’ stanco e avevo voglia di cambiare. Inoltre quando mia figlia era piccola non me ne rendevo conto, ma quando ha compiuto dodici anni ed ha cominciato ad apprezzare i film, mi sono accorto che non avevo realizzato niente che potesse vedere. Ho diretto un film che tratta i complessi di un’adolescente, in modo che fosse anche un regalo per mia figlia”.
I’m a cyborg, but that’s ok racconta la vicenda di Young-goon (Lim Su-jeong), giovane operaia in una fabbrica che produce radio, internata in un manicomio per aver tentato il suicidio durante un turno di lavoro tagliandosi le vene e inserendovi dentro dei cavi elettrici. Ora Young-goon si crede un cyborg e per questo motivo si rifiuta di mangiare. In un contesto che non la comprende, l’unico che riuscirà a capirla sarà Il-sun (Jeong Ji-hoon), un giovane ricoverato per comportamenti antisociali e cleptomani.
I’m a cyborg, but that’s ok è una romantica “commedia di transizione” che, giocando coi generi, fonde tra loro elementi del grottesco e del melodramma. Dal punto di vista tematico vi ritroviamo tutta una serie di temi già affrontati in passato da Park Chan-wook: la follia, la prigione, il manicomio, la diversità. Ecco quindi che I’m a cyborg… but that’s OK non appare tout court come una pecora nera nella filmografia del regista coreano. Se però nel precedente N.E.P.A.L. esistevano ancora medici e infermieri che esprimevano il proprio punto di vista, in I’m a cyborg lo spettatore è costretto a guardare con gli occhi del “folle”. Il mondo messo in scena, quello dei “folli” appunto, viene descritto assumendo un punto di vista interno, dove gli ospiti, per lo più indesiderati, non sono i pazienti, bensì i medici (per questo Young-goon immagina di sterminarli tutti).
Park mette quindi in discussione l’idea di “punto di vista”, sfruttando il tema della “diversità”. Altro tema presente e già incontrato nella filmografia di Park è poi la famiglia, ancora una volta disgregata, sfasciata, incapace d’essere punto di riferimento. Ma I’m a cyborg, but that’s ok tratta anche altri temi importanti, quali i disordini non solo psicologici ma anche alimentari degli adolescenti, e la crescente spersonalizzazione e disumanizzazione del mondo contemporaneo sempre più orientato verso la produzione e il consumo, contesti nel quale l’uomo è solo un piccolo ingranaggio di una lunga catena di montaggio.
Da un certo punto di vista, quindi, in I’m a cyborg c’è una vera e propria sovrabbondanza tematica. Un surplus che colpisce anche la componente visiva e stilistica del film: scenografie ultra-pop curate in ogni dettaglio, un trionfo di rossi brillanti e verdi acidi, interni decorati con affreschi maniacalmente studiati, panoramiche circolari, lunghi piani-sequenza.
Infine, come nelle altre opere di Park, anche qui, pur essendo di base una comedy, manca un vero happy ending. I’m a cyborg, but that’s ok ha senza dubbio il finale più lieto visto finora, ma lo è solo “in apparenza”. Nel finale, infatti, i due protagonisti si abbracciano sormontati da un simbolico arcobaleno colorato, ma la strada verso il ritorno alla normalità è ancora lunga e lontana. Non a caso Park, restio a concedere allo spettatore un vero e proprio happy ending, li inquadra in campo lunghissimo, così che i loro corpi sembrano sì abbracciati, ma sono così lontani, piccolissimi, quasi invisibili, da non darcene la certezza.