Recensione film King of Peking disponibile su Netflix.
Scritta da Pietro Braccio.
Ci sono film che rimangono nascosti, per non dire sepolti, nel confusionario catalogo di Netflix. Rimangono nell’ombra ingiustamente ed emergono per caso, spulciando i film correlati a qualcos’altro di un po’ più noto. È il caso di King of Peking, un piccolo grande film che ci racconta una storia ordinaria, un rapporto padre-figlio, che ruota attorno alla passione per il cinema.
King of Peking è un film che diverte ed emoziona, senza mai però tirare la corda in nessuno dei due casi. Un’opera di sentimento, di amore per la settima arte e per un mestiere, quello del proiezionista, che oggi nell’epoca del digitale non esiste praticamente più. Il cinema è presente in ogni frangente, dialogo, commistione tra immagine e suono. In particolare ricorre il regista per eccellenza quando pensiamo al cinema, Stanley Kubrick, con più di un simpatico omaggio a 2001 Odissea nello Spazio.
In King of Peking ad essere il maggior traino di citazioni è la colonna sonora, interamente strutturata intorno a musiche classiche o che hanno profondamente caratterizzato film indimenticabili. Papà Wong non perde occasione per far sentire al figlio Wong qualche brano estrapolato da note pellicole, in un continuo quiz che vuole alimentare la cinefilia del suo piccolo erede.
King of Peking, però, non è solo un film meta-cinematografico. Anzi da un certo punto di vista non lo è proprio, perché il cinema è il comun denominatore di tutta la vicenda e non solo un gioco di rimandi. È una storia semplice, minuscola, intorno ad un padre che fa leva sul cinema per tenere con sé quel figlio che la madre vuole portargli via. Ecco allora che la settima arte è via di speranza, riappacificazione, unione di opposti e di generazioni solo in apparenza lontane.