Recensione di Love Life di Koji Fukada.
Perdite e ritorni. Il cinema giapponese, come pochi altri, abbonda di queste dinamiche tra andare e restare, vita e morte, amore e risentimento. Love Life di Koji Fukada ruota intorno a questi temi per raccontarci un dramma familiare, coniugale e personale, di una perdita e un dolore lancinanti che però aprono la strada ad un passato che torna a farsi presente, a sentimenti che credevamo sepolti e invece erano solo addormentati.
Love Life, presentato in concorso al 79esimo Festival di Venezia, sceglie di non urlare mai la sofferenza, il cambiamento, il rancore. La vita, come l’amore, non a caso legati nel titolo, prendono vie (traverse) inaspettate e tornano in forme sempre nuove e sempre antiche. Con una regia pacata, che tiene a distanza sia i personaggi tra loro sia i sentimenti più cocenti (nel bene e nel male), Kuji Fukada mette in scena il linguaggio dei segni del cuore. Piccole grandi azioni, gesti, movimenti, parlano più di mille parole. In Love Life, infatti, la voce lascia per lo più spazio al silenzio, senza rinunciare però ad una comunicazione che sa farsi altrettanto efficace.
Love Life sa come arrivare al nostro cuore, poco alla volta, a piccoli passi, con la delicatezza di un bambino di fronte al mondo degli adulti. La sceneggiatura sa dosare i colpi di scena, per lo più incentrati sull’acqua come fonte di disgrazia e rinascita (la vasca piena d’acqua dove annega il figlio e la pioggia rigeneratrice sulla protagonista durante il matrimonio). Love Life fa grandi le piccole cose. E non è poco.