Recensione di Moglie di una spia di Kiyoshi Kurosawa.
Scritta da Pietro Braccio.
Moglie di una spia di Kiyoshi Kurosawa è la dimostrazione che si può fare un grande lavoro di regia anche procedendo per sottrazione, per rarefazione, quasi per immobilismo. Il film, infatti, si è meritatamente aggiudicato il Leone d’Argento per la Miglior Regia alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia. In Moglie di una spia tutto è perfetto, in posa, distaccato, come in un quadro in cui nulla pare muoversi, quando invece la tempesta è nell’anima dei personaggi.
Non c’è un capello fuori posto, non c’è una piega sui vestiti, non c’è un colpo di pistola in questa spy story mescolata al melò dal gusto più classicamente e spassionatamente giapponese. La macchina da presa rimane distante dai soggetti, raramente s’avventura in movimenti più articolati di un carrello o un leggerissimo zoom. Kiyoshi Kurosawa opta per un minimalismo ostentato che, se da un lato alla lunga affatica l’occhio dello spettatore, dall’altro lo tiene sempre sul filo di una tensione che potrebbe deflagrare da un momento all’altro.
Le esplosioni, anzi implosioni, sono nella sfera spirituale e mentale dei personaggi, in particolare di Satoko, moglie di un mercante, devota e innamorata del marito, che dopo un’iniziale esitazione si fa coinvolgere in un gioco dove la menzogna diventa l’arma imprescindibile.
Ma l’aspetto più interessante di Moglie di una spia sta nella sua riflessione meta-cinematografica, sulla settima arte come la vera polvere da sparo capace di suscitare una rivoluzione, una guerra, di far letteralmente saltare gli equilibri internazionali. Una pellicola che racchiude in sé testimonianze video sconvolgenti, cocenti, pericolose, è la chiave che dà sapore e un pizzico di suspense ad un dramma spionistico che, altrimenti, rischiava di perdersi per strada e in balia dello spettro della noia.