Recensione di Fires on the Plain di Shinya Tsukamoto.
Tratto dal romanzo La strana guerra del soldato Tamura di Shokei Oka e remake del film Fuochi nella pianura del 1959, Fires on the Plain di Shinya Tsukamoto tratta il tema della guerra scegliendo la Seconda Guerra Mondiale come exemplum di tutte le guerre, anche di quelle future o che non si sono verificate, sottolineando come sia sempre una follia da evitare e condannare, anche nelle intenzioni di una società moderna che troppo spesso pare invocarla o incitarla come panacea di molti mali.
Al tramonto del Secondo Conflitto Mondiale, l’esercito imperiale giapponese nelle Filippine è ridotto a poche unità. Abbandonati nella più rigogliosa e fitta giungla, i soldati si lasciano andare alle più abiette brutalità (il cannibalismo in primis), guidati da una pazzia che rischia di contagiare tutti senza rimedio. In mezzo a questa dissoluzione fisica e spirituale, il soldato Tamura cerca di portare a casa la pelle salvando il salvabile dei propri principi umani.
Fires on the Plain di Shinya Tsukamoto è un manifesto contro la guerra che marcia deciso verso il proprio fine concentrandosi sul lato più disumano, violento e horror di ogni battaglia. Il regista giapponese si dedica ai corpi con primi e primissimi piani, sui volti bruciati dal sole e sfregiati dalle bombe, su occhi stanchi che a stento trattengono lacrime e sangue, su corpi affaticati e menomati dagli esplosivi. Meno invasivo e meno disturbante di altri film precedenti (si pensi a Kotoko del 2011 che puntava a sfinire lo spettatore con volumi audio altissimi e grida a non finire), Fires on the Plain condensa lo sguardo di Tsukamoto, da sempre fortemente improntato alla carne, nella sequenza centrale del film: una scena di combattimento violentissima, dove volano gambe e braccia, esplodono cervella e budella, dove il sangue sgorga dai corpi a volontà, ma con una crudezza che rifiuta ogni sensazionalismo. Lo spettatore non può che rimanerne impressionato. Ma oltre questo, Fires on the Plain è un war movie che non ci prende in ostaggio, anzi ci lascia distanti, increduli, ma anche poco coinvolti, lasciando solo a metà, potremmo dire in mezzo al campo di battaglia, il messaggio di pace che invece dovrebbe superare il fronte dello schermo.