Recensione di Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-eda, Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018.
Dopo Father and son, Little sister e Ritratto di famiglia con tempesta, Hirokazu Kore-eda continua a scandagliare i soffi vitali, i volti e le sfaccettature della famiglia, perno e allo stesso tempo tallone d’Achille della società giapponese. Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’Oro al 71esimo Festival di Cannes, e presentato nella selezione di Cannes a Firenze 2018, è un ulteriore tassello dell’indagine portata avanti dal regista giapponese intorno alle “affinità elettive” che (non) ci scegliamo, quelle relazioni che ci legano tra sangue e anima, tra (sintonia a) pelle e (aritmie del) cuore.
Un affare di famiglia è l’ennesimo bel film di Kore-eda ed è l’ennesima conferma del talento di un regista che è in primis autore, perché grande osservatore e pensatore della società che vive, attraversa, sogna e re-inventa nei suoi film. Anche in questo caso, siamo di fronte ad un’opera millimetrica, attentamente punteggiata come una melodia che non s’interrompe mai, sempre gradevole e sempre personale, senza mai andare a colpire duramente la nostra sensibilità marcando troppo né la commedia né la tragedia.
Un affare di famiglia si tiene in bilico su quel filo invisibile che non ci porta mai alla commozione né alla risata pura, trasformandoli invece in riflessione e sorriso anche quando il dramma si fa davvero tale. Ecco, Kore-eda in questo è pregevole, leggiadro come quel movimento di dita praticato da padre e “figlio” sin dall’inizio del film. Un gesto, appunto. Uno di tanti, come tanti sono i piccoli simboli e richiami che il regista semina qua e là in modo quasi impercettibile, eppure inavvertitamente pungente sulla lunga durata. Un affare di famiglia è un cinema di piccoli movimenti, piccoli dettagli, quotidiani, naturali, parole che non sfuggono al panta rei del giorno che tramonta. Kore-eda riesce, come un prestigiatore, a trasformare il piccolo in grande, proprio come questa sua storia e questi suoi personaggi. Dialoghi di una semplicità disarmante, che sanno come non (s)cadere nel banale, perché ogni frase è un mattoncino che costruisce e crea ponti, nessi narrativi nei quali lo spettatore s’abbandona come un trovatello in cerca d’affetto.
Ma se da un lato Kore-eda ha la capacità di generare tutta questa meraviglia quasi fiabesca e il coraggio di un turning point che, in un primo momento, all’apparenza, ci suona troppo duro, dall’altro è anche lì, in questa alzata d’ardore, che perde un po’ quota il suo perfetto equilibrio. È l’ultima parte, fondamentale nel messaggio che rimane allo spettatore, ad eccedere in piccoli grandi imperfezioni in qualche dialogo che si fa lievemente didascalico, leggermente ridondante. Ma nella sobrietà diffusa fino a quel momento, si fanno sentire e fischiano un poco nel nostro orecchio. La classica domanda “i genitori sono coloro che ti fanno nascere o quelli che ti allevano?”, imparentata col più ampio e presente tema della scelta, evidente ma sottotraccia per tutto il film, irrompe nel finale come un’ingerenza evitabile, che toglie un pizzico di magia ad un film dove il tema dell’amore, come un ladro abilissimo, era riuscito a soffiare il “trono” a quello della famiglia, vero grande enigma oggi più di ieri.