Recensione di Shanghai Dreams di Wang Xiaoshuai.
Scritta da Pietro Braccio.
Un paio di scarpe da donna, rosse, col tacco. Un piccolo regalo, simbolo del capitalismo e della trasgressione, che agli occhi di un padre vecchio stampo appaiono come un peccato gravissimo. Tutto ha inizio così, da un gesto apparentemente innocente che apre le porte ad un desiderio di sfida, ribellione, vita.
Sullo sfondo di una Cina di provincia nei pieni anni Ottanta, Shanghai Dreams, vincitore del premio della giuria al 58esimo Festival di Cannes, è un film che mette perfettamente e tragicamente a fuoco le storture sociali e le aridità sentimentali di una Cina in preda alla crescita economica e allo sfruttamento del suo popolo, inviato a “civilizzare” anche le zone più interne in nome di un chinese dream che rende schiavi, non liberi.
Shanghai Dreams è un film “riflessivo”. Un’opera che si sfida il tempo, tramite inquadrature che sfiorano la totale immobilità, volte a suggellare la staticità di un intero Paese. Per chi negli anni Sessanta viene trasferito nelle rurali e montuose province dell’interno, Shangai è il sogno di un ritorno a casa, ad una vita rimandata per troppi anni, sacrificata ad uno Stato che toglie e non dà ricompense.
Shanghai Dreams, come molto cinema cinese, racconta la Cina delle campagne, degli operai, delle periferie dove il tempo sembra non scorrere mai. In controluce, un Paese che sta crescendo, lontano, altrove, e ancor più lontano (ma forse nemmeno troppo) il miraggio di un capitalismo che promette grandi speranze e cambiamenti.
Shanghai Dreams è un film di desideri frustrati, sul grande tema dell’identità, tra chi nasce in un luogo e chi, trasferitosi, vorrebbe lasciarlo. Un film di sentimenti così ingombranti da sembrare personaggi e di un mal di vivere che riempie ogni sequenza.