Recensione di Steel Flower di Park Suk-young.
Una ragazza si aggira indomita, stanca e rabbiosa per le strade dissestate di Busan, portandosi appresso il suo trolley pesante come un macigno, zavorra fisica e spirituale di una vita disagiata, senza meta, senza casa, senza requie. Così inizia l’intenso Steel Flower di Park Suk-young, spaccato di una piccola vita maltrattata da tutto e da tutti, sempre in affanno, sempre in salita, sempre alla ricerca di un posto dove poggiare la testa quando cala il buio.
La giovane Ha-dam stringe i denti, non si arrende, e con tutte le ostilità e fatiche del caso porta a termine ogni giornata, pesante come una vita intera. Una lucina in fondo al tunnel, però, un giorno le appare dall’annuncio di un paio di scarpe da tip tap da prendere a noleggio o comprare. Vede ragazze come lei che zampettano e paiono prendere a calci una vita che spesso ci rema in direzione ostinata e contraria. Quelle scarpette sono la sua meta, il suo scoglio, il suo appiglio per salvarsi da un naufragio quotidiano che in Corea del Sud troppo spesso sfocia nel suicidio di una marea di giovani senza speranza che si lasciano andare al pensiero e al gesto più atroce ed efferato.
Il ballo, si sa, come ogni sport, è da sempre, nella vita come nel cinema, mezzo per riscattarsi, salvarsi, rinascere. Steel Flower si inserisce in questo solco, senza ricorrere però a falsi buonismi, compromessi emotivi, speranze da quattro soldi. Il tono della narrazione è lontano da quelli imbellettati da produzione hollywoodiana. Steel Flower guarda la realtà dritta in faccia, brutta, sporca e cattiva. Quelle due scarpette sono la stella polare da seguire, anche se prima c’è tutta la durezza della vita più ingrata.
Steel Flower è quindi un film aspro, disperato, che ci porta nel cuore della sofferenza grazie ad una regia che abbonda di macchina a mano, in strada, accanto a chi l’asfalto lo vive ogni giorno, in una sfida continua per conquistarsi un tetto sopra la testa e uno stipendiuccio da mettersi in tasca.