Recensione di The Spy gone North di Yoon Jong-bin.
Scritta da Pietro Braccio.
Il filone dei film sul rapporto tra le due Coree è ormai quasi un genere cinematografico a sé nella filmografia coreana. E vi abbiamo dedicato anche un post specifico. In particolare inizia a farsi più corposo quel sotto-filone di film tratti da storie vere che affrontano i temi della riunificazione dei due Paesi. Tra i più recenti e di successo, My Dictator di Lee Hae-Jun e A Taxi Driver di Hoon Jang.
The Spy gone North di Yoon Jong-bin, affermato regista coreano di film di grido come Nameless Gangster e Kundo: Age of the Rampant (ri-leggi la recensione), entra col passo fermo su questa strada già ben asfaltata. Ambientato nel 1993, racconta dell’ex militare Park Suk-young che viene incaricato dalla CIA sudcoreana d’infiltrarsi nelle alte sfere nordcoreane col nome in codice “Venere nera”. Con scaltrezza e coraggio, l’agente sotto copertura riuscirà ad arrivare fino a Pyongyang al cospetto del leader Kim Jong-Il.
The Spy gone North è uno spy movie in senso stretto, imperniato sui personaggi e sui dialoghi. Nessun colpo di pistola, nessuna sequenza action. The Spy gone North si muove sul filo della tensione con una precisione tanto chirurgica quanto apatica. Perché qui sta il suo difetto. Attento a non perdere mai di vista il proprio baricentro di genere, il film di Yoon Jong-bin si perde un po’ per strada, facendosi inutilmente prolisso e stemperando sulla lunga durata la suspense generata nella prima parte. Pur essendo il film meno ispirato di Yoon Jong.bin, ha però il favore di poter contare su un cast di attori assolutamente nel ruolo, da Hwang Jung-min a Lee Sung-min, da Cho Jin-woong a Ju Ji-hoon.