Dell’incontenibile, eclettica, imprevedibile, in più casi tendente al geniale e al cult, vena artistica di Sion Sono abbiamo già parlato in passato grazie ad altri film, tutti diversi tra loro in genere, toni e umori, come Himizu, Tag, Love e Peace e The Whispering Star. Tokyo Vampire Hotel ne è l’ennesima dimostrazione, ma anche la sua implosione, il crollo filmico minato dall’eccesso, dal rilancio continuo che alla lunga non sa più a chi rivolgersi e chi divertire.
In Tokyo Vampire Hotel ci sono due bande di vampiri, gli originali Dracula e i nuovi Corvin, che si contendono le sorti delle dinastie familiari e umane, della città di Tokyo, caput (im)mundi di un pianeta in preda alla distruzione finale. Un albergo è il corpo di una principessa, donna-bambolina orientale, che si ciba di umani, sangue e carne a più non posso. Al suo interno, più nel corpo che nell’anima, impazza una guerra apocalittica tra il male e il male, sì perché non ci sono buoni in Tokyo Vampire Hotel.
Sion Sono gioca d’accumulo, reitera pistole, spade, sparatorie, teste mozzate, sangue a fiumi su pavimenti scivolosi. Non c’è salvezza per l’umanità, costretta ad accoppiarsi controvoglia nelle controllatissime stanze dell’albergo. L’unica (re)azione è la rivolta, il tutti contro tutti. L’esito finale: il nulla.
Tra i film più attesi al 35esimo Torino Film Festival, Tokyo Vampire Hotel, pur divertendo nella prima parte con alcune trovate gore che strappano risate perverse allo spettatore più sadico (si veda l’incedere delle forchettate in volto alla ragazza nella locanda che apre il film), si perde ben presto per strada, come in un fitto labirinto (e lo stesso hotel lo è). Sion Sono pare perdersi anche lui, ma va avanti per inerzia, come un vampiro che non ci vede più dalla fame (di sangue).
Versione cinematografica (quindi accorciata sulle 2 ore e un quarto, per fortuna!) di un progetto seriale targato Amazon e destinato al mercato nipponico, Tokyo Vampire Hotel è un divertissement che finisce per divertire (forse) solo il suo regista, un joke che, dopo i convenevoli iniziali, si dimentica d’invitare a giocare anche noi spettatori.