Recensione di Zan (Killing) di Shinya Tsukamoto.
Dopo Fires on the plain, Tsukamoto aggiunge un altro tassello alla sua “mission” di denuncia della guerra, dell’atto di uccidere, della violenza. E lo fa non abbandonando la componente sanguinaria che da sempre caratterizza il suo cinema.
Dalla Seconda Guerra Mondiale del film del 2014, con Zan (Killing) passa al tempo dei samurai, guerrieri sempre ammirati dal cinema e protagonisti di un immaginario che non conosce incrinature. Se in Fires on the Plain protagonista era un soldato che cercava di conservare la propria umanità su un fronte di guerra disumano fino al confine del cannibalismo, in Zan (Killing) protagonista è un samurai che si rifiuta d’uccidere, che s’interroga sul senso di questo gesto, regola di uno status che lui rifiuta come obbligo da compiere. Non uccidere, per un samurai, è tradire un credo. Quindi Zan (Killing) è una riflessione, e un atto di ribellione, nei confronti di un dogma millenario, di un mito intoccabile, poiché ne mette in discussione il cuore, pulsante e necessario, della questione (morale e non solo).
Zan (Killing) coinvolge, unendo come fodero e spada i contenuti suddetti con una regia veloce, che corre, insegue e ama i personaggi e le loro gesta intorno a quel “ferro” da sguainare o meno. Minimalista nei costumi e nella messinscena, il film va all’osso della faccenda, evitando fronzoli e distrazioni anche nell’intreccio, dritto come un fuso alla meta riflessiva cui vuole condurre lo spettatore e un “genere” nella sua totalità.
Zan (Killing) è una meditazione sul corpo e sullo spirito, su ciò che li lega e li separa quando entra in gioco la coscienza. E la sua katana affonda nella carne viva fino a toccarci l’anima.